di Marco Camerini
A
Gina Berriault (1926-1999) è, in qualche modo, toccata la sorte dell’umbratile
J. Johnson (ci siamo occupati del suo unico libro Ora che è novembre, Bompiani 2017) piuttosto che quella del Nobel
A. Munro, anch’essa straordinaria autrice di short stories, e questo nonostante
gli apprezzamenti sinceri di alcuni fra i più autorevoli scrittori della sua
generazione opportunamente riportati in quarta di copertina. All’editore
Mattioli 1885 si deve la prima traduzione italiana dei suoi racconti, storie
uniche per drammatica intensità d’ispirazione, capacità narrativa di costruire
trame inquiete ed inquietanti su particolari solo apparentemente secondari,
nitida eleganza formale: doveroso il tributo ad una scrittrice misconosciuta
anche in America. I modelli vengono persino citati nel corso della raccolta
(Gogol’ e Cechov più che Carver o Dubus, magari la Woolf, certo l’Achmatova,
Whitman, Pound per la cifra poetica della sua prosa) e i piaceri sono quelli
che la Vita ha rubato ad un’anonima folla di personaggi i quali solo raramente
hanno saputo/voluto fare altrettanto con le opportunità di un destino assai
poco generoso: la speranza in un futuro migliore (accade alla problematica
Delia “dalla faccia piatta e minacciosa” e alla sorella Fleur, “riccioli color
rame e aria da agnello sacrificale” de I
piaceri rubati [1] che, incapaci di “dimostrare quanto fossero preziose”,
colmano un’esistenza frustrante con la reciproca e alla fine solidale
confessione dei propri rimpianti), [2] il
sogno della colta, fascinosa Claudia di incontrare Camus per le vie di Parigi e
qualcuno “capace di spezzare le catene dei suoi sensi di colpa” (Morte di un uomo minore), le
aspettative di successo del rancoroso Berger, solo “suonatore e non artista”,
lui che “viveva la musica come un concentrato di tutti i desideri e le cose
belle provate” (Notti nei giardini di
Spagna). Ancora ad essere sottratti senza scampo sono il recupero di un
rapporto genitoriale difficile, mai rimosso né rinnegato (“colpa dello sguardo”
quella di Arty che assiste, Spettatore
inerte e passivo, al crollo di un padre tardivamente incontrato fra i pazienti
di un ospedale psichiatrico e solo di un male inesorabile se Eli, con il suo
gogoliano Cappotto “nero, poderoso e
impenetrabile” non riesce a confessare al suo che dovrà sopravvivergli), [3] l’opportunità – per il
cattivo/folle/solo razionale? Bambino di
pietra Arnold (“Perché sei rimasto a raccogliere piselli per un’ora dopo
che tuo fratello era morto?”) o la Bimba
sublime Ruth, concupita dall’amante di sua madre – di vivere un’adolescenza
serena, il senso ultimo della propria identità (Chi può dirmi chi sono? con la figura del bibliotecario Perera che
rinvia al Tabucchi di Tutti i nomi prima che a Dickens o Dostoevskij…e non
fosse per una “i”?!). Infine l’amore, il furto che scuote maggiormente e non si
vorrebbe mai subire: non solo quello senile ed impossibile che nasce da L’infinito potere delle aspettative di
un anziano verso una giovane cui non serve il Kierkegaard de La pienezza del cuore per “alzare gli
occhi e guardarsi intorno”, o di una donna che, per l’egoistico piacere di
essere ancora desiderata (“terribile non vivere più nemmeno nei ricordi”)
costringe gli altri a farlo anche se hanno 16 anni, ma l’Amore in sé, come
empatico incontro di anime. Ne traccia un desolato referto la taciturna,
sensibile, coscienziosa sessantatreenne de Il
diario di K.W. kafkianamente ridotta alle sue sole iniziali, a parlare con
un Dio che non risponde (“mi rispondo da sola e faccio tutto il lavoro al posto
Suo”), a vergognarsi delle “piccole transazioni” esistenziali e sperimentare la
forza rigenerante della pittura ma non quella della passione…tanto affine, in
questo, alla dublinese Maria di Cenere.
Accumunano le vicende di ognuno il rimpianto struggente di un passato (forse)
felice, il costante senso di smarrimento e perdita, la lucida percezione del
fallimento che generano rassegnazione più che rabbia, paralisi più che vitale,
necessaria speranza, ripiegamento cinico ed esacerbato, mai solidale apertura
alle ragioni dell’altro: amico, consorte, amante, genitore o figlio che sia.
Labili ma tenaci segnali di riscatto sembrano giungere dalla terapeutica
pratica dell’esercizio artistico: non a caso due racconti vedono protagonisti
degli scrittori – seppure in crisi – e la musica, in tutte le sue declinazioni,
è una sorta di preziosa costante del libro. Così a Lang gli Scherzi dell’immaginazione consentono
di sconfiggere “l’indifferenza per il miracolo della vita” – vera linfa dell’ispirazione
creativa (e confessione di poetica) –
Kligspringer ritrova la propria dimensione di affabulatore alla Ricerca di Kruper, fantomatico,
salingeriano Kurtz della narrativa e nel citato Piaceri rubati – ci limitiamo a
questo riferimento – compare una bellissima definizione del jazz (oltre che…del
pianoforte): “La melodia che esplode senza un vero inizio e non torna indietro
per ricominciare, suonata da persone che pareva sapessero avrebbero ricevuto
ciò che volevano e molto di più dalla vita” (p. 48).
L’apparente
minimalismo tematico (sarebbe piaciuto a Flannery O’Connor) si traduce in uno
stile mai semplicemente referenziale nella sua asciutta essenzialità
(prevalgono l’indiretto – a volte libero – del personaggio o il punto di vista
onnisciente del narratore sui dialoghi) con frequenti squarci lirici e
splendidi finali “aperti” che raramente concludono l’esile intreccio,
suggerendo intriganti perplessità/interrogativi nel lettore, sempre
emotivamente coinvolto da una lettura appassionante. Gina Berriault va
(ri)scoperta ed amata.
______________________
[1]
In grassetto i titoli dei racconti.
[2] Rimanda ad Espiazione di McEwan il rapporto di conflittualità/complicità fra le
due ragazze.
[3] Questi ultimi due racconti ci sono parsi
assoluti capolavori, fra i migliori della letteratura americana del secondo ‘900…ma eravamo sul punto di eliminare l’aggettivo.