di Marco Camerini
Nelle splendide storie
dell’irlandese W. Trevor (Racconti scelti,
Guanda 2018) è l’impronta del passato a conferire una sostanziale e felice
omogeneità d’ispirazione: quello che nasconde segreti inconfessati (incombe
sull’umbratile e “fuggevole” Ariadne,[1] “santa
d’altri tempi vestita sempre in malva”) e violenze sanguinose rimosse da
arcaiche comunità di campagna che “non amano vengano portati loro via i santi”
(come è morta veramente la Maureen McDowd de I fatti di Drimaghleen e cosa
nasconde Vera in Tre
persone?) o ritorna con tutto il suo carico di rimpianto
per un amore perduto (Grania e quell’estraneo senza nome “tranquillo,
assennato, accomodante” – possibile sia lui?...1972 – che Un sabato d’agosto[2] ricompare nel tennis club di
provincia in cui tutti, fra annoiati rituali, sopravvivono alle propri
frustrazioni e ognuna delle mogli/amiche avrebbe potuto sposare il marito di
una delle altre”). Il passato che svela, spesso attraverso la morte, verità
scomode, taciute, rimosse (Il
signor McNamara) e talvolta – troppo di rado –
conserva il ricordo struggente di un affetto totalizzante empaticamente vissuto
(Sole d’autunno, con la
defunta moglie del pastore Moran vera “presenza assente” che rimanda al
joyciano Michael Furey de I morti).
Certo, in una raccolta tenacemente irlandese è anche il politicamente corretto Passato lontano dei
Middleton, “bizzarri ma innocui, strani, magri e silenziosi fratelli dagli
occhi azzurri come il padre” finiti in miseria per causa sua – troppi regali ad
una “cattolica della capitale” – protestanti lealisti fieramente avversi al
Governo indipendentista, al nuovo turismo postbellico transnazionale, alle
“brezze di accenti americani”, al dilagare di prodotti stranieri e “bombe
papiste”, mentre l’Ulster non prega più per la Famiglia Reale.
In una dimensione
esistenziale che non riesce/vuole chiudere la partita con ciò che è stato e
registra l’inevitabile paralisi di giovani Figli ossessionati da genitori
cui non vorrebbero assomigliare per non finire fagocitati dalle loro
anacronistiche consuetudini (“agnello e salsa alla menta, the alle cinque e
plumcake alla frutta in sale da pranzo
dal sentore di muffa e, dietro l’angolo, una tragedia annunciata ne I figli del direttore) e di
figlie tanto simili alla “dublinese” Evelyn come la sensibile, disperata,
sottomessa Kathleen la
quale, per un campo e l’attaccamento alla famiglia, accetta vergognose
vessazioni, l’amore, altro tema chiave della silloge, è sempre quello che è stato
o avrebbe potuto essere e sembra esistere solo nella sua segretezza, nella
necessità opportunistica, nella precarietà, nel rimpianto. Riflesso, perduto,
sognato, mai vissuto seguendo gli impulsi di una passione autentica, l’unico
modo di alimentarlo rimane, paradossalmente, porvi fine, magari per illudersi
della sua sincerità. Alla fine si riduce, inesorabilmente, ad ipocrita menzogna
(Il terzo incomodo),
squallido accomodamento coniugale mascherato da idillio appagante (quadro della
Vergine alle pareti del medico compiacente, poi Kitty lo tiene il figlio avuto
da chissà chi per una “indimenticabile” e ipocrita Luna di miele a Tramore),
tormentata bugia per non ammettere le umiliazioni subite e condannarsi ad una
solitudine senza alibi (Veglia
con il morto), patetica ricerca di un’anima gemella fra i
questionari di un’agenzia matrimoniale (da compilare “senza mentire troppo con
se stessi e con il tempo” per Una ennesima, frustrante sera fuori), adulterio
amaro e disperato consumato in Una stanza. Poca speranza, rari barlumi di
serenità, tormentoso senso di estraneità ed abbandono nell’universo
sentimentale di William Trevor popolato – in un arco temporale che va dagli
anni ’50 ai primi ’90 – da una antieroica moltitudine di Gente (non) di Dublino,
“pericolosa e lontana”, sullo sfondo, quasi sempre, di un’Irlanda ricca di
edera, case dalla facciata georgiana, granai, sperdute contee, giardini di
ortensie/mele selvatiche/faggi/erica e castagni, hall di alberghi retrò con poltrone di cuoio e lampade a
gas, silenziosi conventi di reverende madri e canoniche di pastori o sacerdoti
(dipende, nella terra di “villani luterani e clericali bigotti”), leggende
popolari, spacci alimentari, pub polverosi e piccoli rettori di piccoli
college, pane nero, porridge, sardine, brocche di porcellana bianca per
lavarsi, camini, piattaie insieme a declinazioni infinite di birra e whisky,
tweed e velluto a coste. Due i santi titolari di pievi sperdute, alternativamente
S.Michele e S.Patrizio, uno il quotidiano, l’Indipendent.
Lo stile di questo straordinario
scrittore, che eccelle nel racconto breve (come sottolinea J. Banville nella
puntuale prefazione), è asciutto, essenziale, poco incline al lirismo, mai
tuttavia meramente referenziale: indubbiamente “realista” – con tutto quello
che di generico ed approssimativo implica oggi il termine – ma di un realismo
particolarissimo sul quale vale la pena soffermarsi. Ricorrendo, per lo più,
alla terza persona con ottica interna tende, infatti, a creare un’atmosfera
allusiva e sospesa, di fatto estranea ad un minimalismo “ortodosso”, da un lato
per la frequente tendenza a non descrivere direttamente il personaggio che
determina lo spannung narrativo (Sabato d’agosto), a farne delineare i
caratteri da altri (Il signor McNamara,
Veglia con il morto) o addirittura,
come ne Il terzo incomodo, a
collocarlo del tutto fuori dall’intreccio – conferendogli, altresì, in modo
inversamente proporzionale, la capacità di condizionarne ogni risvolto –
dall’altro, mediante l’uso insistito del condizionale, a proiettare in un
futuro extratestuale (più o meno prossimo) una situazione
immaginata/temuta/desiderata.[3] Se a questo aggiungiamo le frequenti, fulminee
analessi che fanno irrompere, nel presente della scrittura, la rievocazione di
un fatto drammatico i cui contorni/dettagli rimangono indistinti e vengono
lasciati all’intuizione del lettore, si può comprendere come i modelli di
Trevor siano più il citato Joyce e F. O’Connor che Carver o Eugenides e risulti
innegabile, nella sua scrittura, il ricorso all’evento epifanico rivelatore del
“mistero” più profondo della trama, in grado di elevarla a quella “visione
anagogica” che trascende il grezzo dato naturalistico tanto cara alla
scrittrice.[4]
[1] In
grassetto i titoli dei racconti.
[2] Le assi
temporali presente/passato si fondono narratologicamente senza soluzione di
continuità a sottolineare lo stato emotivamente alterato della donna in uno dei
esito migliori dell’intera raccolta.
[3] Riportiamo,
come esemplificazione fra le molte possibili, un passo tratto da Il terzo incomodo: “Nei successivi
ottanta chilometri non vide traccia dell’automobile di sua moglie. E
naturalmente, così si disse, non c’era motivo per cui ci dovesse essere: era
una semplice congettura che lei partisse quel pomeriggio […] Poi si chiese come
sarebbe stata la sua partenza in caso contrario. Lairdman [l’amante della
moglie n.d.r] sarebbe andato ad aiutarla? Naturalmente a questo non avrebbe
obiettato. Quando arrivò alle prime case del suo quartiere, Boland capì che non
soltanto la Volkswagen bianca non l’aveva portata da Lairman, ma non l’avrebbe
fatto l’indomani, né il giorno dopo o la settimana seguente. Non l’avrebbe
fatto dopo un mese o dopo Natale. Non l’avrebbe fatto, punto e basta” (pp.
193-194).
[4]
FLANNERY O’CONNOR, Nel territorio del
diavolo: sul mistero della scrittura, Minimum fax, Roma 2002, p. 45 e segg.
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