Abraham Yehoshua: tutti i nomi del tunnel

di Marco Camerini

Zvi Luria, stimato dirigente in pensione dei Percorsi d’Israele (denominazione meno tetra e quasi turistica del “Dipartimento Israeliano dei Lavori Pubblici”), esemplare per buon senso, professionalità, rigore nel lavoro, pazienza e generosità nei rapporti con una famiglia amatissima, inizia a perdere le informazioni essenziali, che “vagano nella sua mente come un pesciolino nero” incapaci di trovare un’uscita, il cellulare nel deserto del Negev (“annusato da una volpe nostalgica con i denti aguzzi”), il controllo di un SUV, la strada di casa e, improvvisamente, quella di un’esistenza sino a quel momento appagante. A proiettare l’immagine della moglie Dina (64 anni, pediatra, premurosa e decisa, 48 anni di matrimonio fatto di “attesa fiduciosa e vicendevole”) in donne più giovani che, inquietanti, fascinosi sosia, a loro volta si moltiplicano/dissolvono in fantasmi femminili del passato e del presente, a parlare con la suadente voce femminile del navigatore (accento coreano o giapponese),[1] confondere Mosé con Giosué – grave, anche per un ebreo non ortodosso – e a sbagliare: il nipote da prendere all’uscita dell’asilo, gli acquisti del supermercato, il codice dell’antifurto (e come si accendono i fari?), la stanza dell’amico all’ospedale, le porte (la Giulietta di Gounod bisogna ascoltarla seduti in platea, non finire dietro le quinte per metterla in guardia dall’errore fatale) ma, in particolare, i nomi. Fagocitati dall’atrofia del lobo frontale destro diagnosticatagli, si volatizzano prima dei cognomi e pure pretendono di essere pronunciati, “truffaldini si camuffano”, perentoriamente vengono richiesti, magari da tenaci ex-amanti rancorose, e finiscono scritti sul palmo della mano, come accade al nonno di Oskar in Molto forte, incredibilmente vicino. Perché l’ultimo romanzo di A. Yehoshua Il tunnel (Einaudi 2018), fra i suoi meno “politici”, è anche un romanzo “dei” e “sui” nomi: quelli angosciosamente dimenticati, quelli emblematici dei personaggi – Hanadi fiore viola/spada, Shibolet spiga/vortice, il fiabesco Aladin, Assael “fatto da Dio” e Zvi… cervo – soprattutto quello che tutti tentano di sostituire con i più rassicuranti “disorientamento”, “smarrimento”, “stato confusionale”: demenza senile progressiva. Non mancano, certo, i temi cari allo scrittore: il tunnel – che, come forma di terapia contro la degenerazione neuronale, l’ex-ingegnere esperto in svincoli e cavalcavia spinto dalla moglie progetterà, aiutando il figlio di un vecchio collega – lo proietta nel vivo dei complessi, delicati rapporti israelo-palestinesi, a contatto con la realtà di onlus non sempre ineccepibili che fanno curare i secondi negli ospedali dei primi, mentre Israele, scossa dalla corruzione dei suoi vertici, sempre meno esporta nei paesi in via di sviluppo competenze in campo agricolo, idrico, logistico (come nei lontani anni ’60) e sempre più sofisticata tecnologia militare, con buona pace dei Nabatei “adoratori del sole” e degli arabi di Palestina…”ebrei che hanno dimenticato di esserlo” secondo Ben Gurion, più volte (e non a caso) citato insieme al Presidente israeliano che del protagonista ha il cognome, Ben Zvi. Certo, ben altro che una galleria, sembra suggerirci l’autore, deve essere scavata per aprire finalmente la strada ad una convivenza apertamente condivisa, civile, solidale e duratura fra i due popoli. Stavolta, tuttavia, ci paiono altri i nuclei ispiratori dell’intreccio: l’avanzare inesorabile degli anni, la prospettiva incombente della morte (e quale sia preferibile), l’amore coniugale senile – fatto di sguardi, reciproche ansie, delicate attenzioni, dedizione, sessualità che riscopre il candore e l’impaccio della giovinezza – soprattutto, nell’incedere di una strisciante invalidità che lo scrittore ha declinato letterariamente in tutte le sue valenze (come Oz, con eguale maestria, il tradimento in Giuda), la necessità e il desiderio, delicato e struggente, di aprirsi alle ragioni del prossimo per sentirsi vivi e “attaccarsi alla vita”.[2] Allora anche il tunnel della demenza, ritrovato uno spiraglio di luce, può trasformarsi in risorsa capace di intercettare la realtà e divenire intuizione, libertà, immaginazione, capacità di commuoversi e amare con ancor maggiore tenerezza e sensibilità, fiduciosa speranza: magari in un futuro di pace, se è vero che l’israeliano Zvi Luria ricorda, alla fine, solo i nomi… arabi.
Lo stile, come sempre nelle opere di Yehoshua (non mancano, ne Il tunnel, richiami a La comparsa, l’arpa del concerto di Debussy, e a La scena perduta, Ayàla frequenta un corso di cinematografia) merita particolare attenzione. La sua miracolosa naturalezza viene arricchita da improvvise aperture liriche[3] e il ricorso al tempo presente nella narrazione – con punto di vista esterno onnisciente abilmente alternato a quello interno del protagonista, spesso in indiretto libero – da un lato rende efficacemente il progressivo senso di precarietà con cui questi vive e “vede” le vicende, dall’altro non consente al lettore di essere immediatamente informato sugli esiti “letterari” della sua deriva mentale, i cui particolari vengono rivelati successivamente da altri personaggi. Un solo esempio: che Luria si fosse addirittura truccato dopo essere finito nel retropalco durante il Giulietta e Romeo di Gounod lo sappiamo, nel corso della visita neurologica di poco successiva, dal figlio Yoav, che si attira fra l’altro le ire della madre per aver sottoposto il padre ad una “inutile umiliazione”. Il caleidoscopico alternarsi e dissolversi delle ottiche narrative (che qui consente di tradurre, sul piano formale, la lenta ma inarrestabile evoluzione della patologia) è, del resto, una caratteristica dello scrittore. Basterà ricordare, ne L’amante, la sorprendente resa dei balbettii di un’anziana che esce dal coma o il “colloquio straniato” dell’israeliana Dafi e dell’arabo Na’im – in cui la medesima situazione viene descritta dalle differenti prospettive dei due ragazzi per sottolineare l’incomunicabilità storica delle rispettive etnie – e, nel Signor Mani, il “dialogo ad una voce” nel quale non compaiono le domande/risposte di uno degli interlocutori, intuibili solo dalle battute dell’altro. Per concludere, il finale “aperto” è stato ritenuto debole e poco riuscito: probabilmente era l’unico possibile (benedetto Calvino!) e lasciamo a chi legge il piacere di scoprirlo. Ha a che fare con i nomi, comunque…

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[1] Situazione narrativa, ricordiamolo, sviluppata brillantemente nei suoi risvolti umoristici e tragici da J. Coe ne I terribili segreti di Maxwell Sim.
[2] “Io le dico, caro signore, che ho bisogno d’attaccarmi alla vita altrui… perché ce lo sentiamo tutti qua il gusto della vita che non si soddisfa mai” (L. PIRANDELLO, da L’uomo dal fiore in bocca).
[3] “La luna, incalzata da uno sciame di stelle, finisce il suo turno, un sms inascoltato svolazza nello spazio, un camion ringhia sicuro e brutale mentre il sole pulsa e lascia il mondo scortato da una pioggerella sottile nell’autunno titubante” (passim dal testo).